La Georgia è un fiume che ritorna alla sorgente. È la storia di Levan, nato a Tbilisi da una famiglia di allevatori venuta dalle montagne di Ushguli, costretta a migrare nella capitale per lavorare nelle fabbriche e contribuire al sogno del regime comunista di rendere il paese moderno e all’avanguardia. Cresce tra palazzi sovietici, cortili rumorosi e il fumo dei bagni di zolfo, senza sapere davvero da dove viene. Un giorno decide di partire verso nord, seguendo la scia del passato.
Nel passare per Mtskheta, il suono delle campane lo accompagna come un ricordo antico e a ogni tappa il rumore della città si affievolisce, mentre quello dell’acqua si fa più chiaro.
A Gori guarda i treni arrugginiti e pensa a suo nonno, umile operaio stakanovista dell’URSS, instancabile e laborioso. Poi, quando la strada si stringe e l’aria si fa sottile, riconosce il profumo dell’erba bagnata: è come un richiamo nel sangue.
Quando raggiunge Ushguli, il villaggio più alto d’Europa, tra torri e pascoli, non ha più bisogno di parlare. Il vento lo chiama per nome. È come se il suo sangue riconoscesse il paesaggio. Lì, tra le torri e i pascoli, smette di essere un viaggiatore: torna uomo, torna figlio della terra.
Scopre il ritmo della vita semplice, il gesto antico di pascolare gli animali, la libertà che non ha parole.
Non è una fuga, ma un ritorno, un ritorno a sé stesso, alla terra, al principio. Il fiume è risalito alla sua sorgente. Il viaggio finisce dove tutto era iniziato: nel silenzio della terra, tra gli animali, nella pace che non chiede nulla.